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Cercasi impresa a misura di crescita

di Orazio Carabini

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28 novembre 2009

La classifica delle società pubblicata da Mediobanca è lo specchio del sistema produttivo italiano. Se si guarda ai primi posti, per esempio ai gruppi con più di 10 miliardi di fatturato (una dozzina in tutto), si vede che ci sono imprese pubbliche (Eni, Enel, Finmeccanica, Poste), utility (Telecom, Enel, Edison), compagnie petrolifere (Eni, Erg, Esso). Della grande industria manifatturiera privata restano solo la Fiat e la siderurgia di Emilio Riva, oltre a Benetton che peraltro è sempre più proiettato verso il settore delle infrastrutture (autostrade e aeroporti).

La grande impresa, nella sua accezione tradizionale, è ridotta ai minimi termini. Esiste però una fascia di aziende medie e medio-grandi, con un fatturato annuo che non supera i 2 miliardi, molto proiettata sull'estero, in crescita e con una buona redditività. E al di sotto un mare di piccole, se non micro, imprese, con un giro d'affari modesto e pochissimi dipendenti. «Quante sono davvero le imprese – si chiede un imprenditore con una lunga esperienza associativa – intese come organizzazioni complesse in cui si combinano fattori produttivi per produrre o scambiare beni o servizi? Sono 220mila quelle con più di dieci dipendenti e 400mila quelle con più di cinque dipendenti. I milioni di imprese che saltano fuori quando si parla di partite Iva sono studi professionali, negozi, botteghe artigianali, realtà diverse dall'impresa propriamente detta». Quelle associate alla Confindustria sono 142mila e l'83% di esse ha meno di 50 dipendenti, mentre solo il 3% ne ha più di 250.
«Abbiamo – osserva un politico con una lunga esperienza di governo alle spalle – splendidi mercati di nicchia in cui le eccellenze italiane primeggiano: se ne ricavano dei bellissimi siti per propagandare il made in Italy, ma non è da lì che vengono i punti di Pil necessari per rilanciare la crescita». Sono due i filoni di pensiero che si confrontano sulla realtà del sistema produttivo italiano: uno, più negativo, che si può ricondurre alla Banca d'Italia, e l'altro, più positivo, sostenuto da Mediobanca.

Due scuole, due letture
Dice la Banca d'Italia: la produttività, comunque la si misuri, è ferma da 15 anni, le imprese vanno avanti con i profitti, s'investe troppo poco nella ricerca e nell'innovazione. Secondo l'ufficio studi di Mediobanca, diretto da Fulvio Coltorti, il cosiddetto "quarto capitalismo" regge alla crisi e le 4-5mila medie imprese, con la loro strategia di globalizzazione, mettono il sistema produttivo in condizione di affrontare le sfide del futuro. Una posizione condivisa, tra gli altri, dal Censis di Giuseppe De Rita e dalla Fondazione Edison di Marco Fortis.
Certo è che la crisi ha permesso al mondo dell'impresa di riaffermare la centralità dell'industria nell'economia. «È la reazione al crollo della finanza – dice un importante banchiere –. Sembrava che la pietra filosofale dello sviluppo fosse la finanziarizzazione finché non è arrivato il crollo. E la percezione è cambiata adesso che anche la finanza ha avuto bisogno del soccorso pubblico».
Per la verità, la recessione ha colpito anche il sistema produttivo: la produzione industriale è calata del 30%, il Pil del 5%, le esportazioni del 25 per cento. Ma l'inversione del ciclo che ha fatto temere al mondo intero un bis della Grande Depressione degli anni 30 è stata innescata dai disastri combinati nella finanza. E la via virtuosa alla crescita è tornata a passare per l'economia reale, soprattutto per l'industria.

Sono riusciti gli imprenditori a mettere a frutto questa riconquistata centralità? Hanno imposto la loro visione guadagnando spazio negli equilibri di potere del paese?
«I pezzi grossi sono in difficoltà – dicono ai piani alti di un'importante Authority – e al centro è rimasto un buco. Quello che una volta si chiamava "salotto buono" non esiste più: la Fiat è sempre più internazionale, Marco Tronchetti Provera deve rimontare dopo Telecom, Carlo De Benedetti concentrato su Repubblica, Silvio Berlusconi in politica. In compenso contano di più i manager pubblici di Eni, Enel, Finmeccanica. E, nonostante tutto, le banche».
«In Italia – sostiene invece uno dei più autorevoli imprenditori – c'è sempre stata una sola grande impresa, la Fiat. Più che un salotto buono serve un processo decisionale condiviso da gente competente, che ha passione. La buona borghesia, come si diceva una volta, era questo».
Severi i banchieri. «Le imprese? Deludenti – dice uno di loro –. Sanno chiedere solo detassazione e aiuti, poi non fanno investimenti e la produttività diminuisce. Le dimensioni medie delle imprese devono crescere, così sono troppo piccole. Il sistema non ha mai saputo rilanciare in avanti: non c'è un progetto».
«È vero che i piccoli imprenditori sono una grande risorsa del paese, instancabili e creativi – dice un altro banchiere – ma sono ossessionati dal fisco e devono conciliare l'interesse aziendale con una visione sociale».
«Tra banche e imprese – commenta un autorevole uomo politico - si è creato un equilibrio di sopravvivenza: le banche non danno i soldi ma non fanno i write-off, cioè non fanno fallire le imprese. Così però non se ne esce. Il problema è di "intangibles" cioè capacità di previsione, creatività, sblocco dell'incertezza. Leadership vuol dire progettazione del futuro. Dove sono i Beneduce, i Cuccia, i Mattioli che convocano riunioni, discutono, concludono che servono certi investimenti e trovano le risorse per realizzarli? Non vedo nulla di questo. C'è carenza di leadership». «All'epoca (del piano Sinigaglia nel 1948, ndr) – continua – nessuno avrebbe scommesso una lira sul fatto che l'Italia si sarebbe saputa dotare di un'industria siderurgica. E invece da allora la manifattura italiana è diventata un'altra cosa. Eppure non c'era nulla, solo un'idea».

  CONTINUA ...»

28 novembre 2009
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